Lo Ius scholae è una questione di numeri. Dati alla mano, pubblicati dell’autorevoissima CGIA di Mestre il 24 agosto, “nel Mezzogiorno si pagano più pensioni che stipendi, ma nel giro di qualche anno il sorpasso è destinato a compiersi anche nel resto del Paese. Secondo alcune previsioni, entro il 2028 sono destinati a uscire dal mercato del lavoro per raggiunti limiti di età 2,9 milioni di italiani, di cui 2,1 milioni sono attualmente occupati nelle regioni centro-settentrionali”.
Quindi se le previsioni annunciano uno scenario ben peggiore per tutto il paese, anche nelle zone più avanzate economicamente nel nord Italia, è obbligatorio chiedersi “chi pagherà queste pensioni?”, la risposta è una e certa: gli italiani. Sì gli italiani del calo demografico, della crisi economica e dei valori che, secondo qualche altra statistica, nel 2100 rischiano di non esistere più nelle mappe etnografiche.
Se popolo significa individui uniti dalla cultura, dalla lingua, dalle leggi e dalla religione, il popolo italiano rischia di essere molto più numeroso che nei registri dell’anagrafe.
In questo senso lo ius scholae diventa necessario. Riconoscere quell’appartenenza culturale, certificata da un ciclo di studi nel nostro paese, a chi anche se non è nato da genitori italiani, vive qui da 18 anni e magari è cresciuto spalla a spalla ad un coetaneo nato da due genitori italiani.
Con lo Ius Scholae si apre la possibilità a questi ragazzi di sentirsi finalmente italiani, dato che ne condividono la cultura, la lingua e le tradizioni, senza avere quel disagio di dover rinnovare il permesso di soggiorno nonostante siano nati e cresciuti in Italia.
“Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani” è vero caro D’Azeglio, ma nell’Italia del 2024 si è fatta una nuova Italia e ora bisogna fare i nuovi italiani, altrimenti i vecchi discendenti di Garibaldi e Mazzini restano senza pensione.